lunedì 1 settembre 2014

Cinema – Frontieras di F. Belyazid


Salam aleikoum amici, la mia ultima escursione alla Cinémathèque alla ricerca di wifi mi è fruttata la preziosa informazione che il bar della suddetta è ormai punto di ritrovo per tutti gli stranieri che vivono a Tangeri, oltre che la visione di un film per 20 dirham.
Frontieras affronta la complicata questione del separatismo saharawi da un punto di vista bizzarro: una simpatizzante indipendentista spagnola parte per il sud del Marocco per girare un documentario sul Sahara occidentale. Questo viaggio le frutterà un rivolgimento delle sue preconcezioni e un nuovo amore. 


L'inizio è ambientato principalmente a Laayoune, dove Maité è assistita da un marocchino, che la mette di fronte all'altro lato della medaglia: le interviste che la porta a registrare mostrano che buona parte della popolazione saharawi, soprattutto gli intellettuali e la fascia istruita, è ben felice dell'appartenenza al Marocco e ne apprezza l'operato politico e la recente svolta in termini di diritti umani. In effetti la questione è più complessa di come la faccia questo reportage di Vice: il territorio del Sahara occidentale (e anche la Mauritania) è stato per molti secoli sotto la tutela dei sovrani del Marocco, prima che gli interessi coloniali francesi e spagnoli sconvolgessero la geopolitica di tutto il continente. È appunto il colonialismo, con il supporto dell'Algeria, ad avere creato il movimento indipendentista. Ed è senza dubbio dal senso di colpa post-colonialista che una buona parte degli europei di sinistra deriva la convinzione di dover salvare l'Africa da se stessa (e dalle brutte abitudini apprese dall'uomo bianco). Così Maité, che è scandalizzata da come vivano bene gli amici del suo amico, addirittura ascoltano musica lounge alle feste.
Maité è pronta a gettare la spugna, ma una promessa fatta a un amico la porta a spingersi più a Sud, dove incontra un affascinante ex-combattente del Polisario, attuale presidente di un'ONG che assiste le famiglie povere saharawi. Maité è decisa a seguire quest'ultimo in un viaggio nel deserto. Tra un'oasi, una poesia decantata in arabo, un the nel deserto (non quello di Bowles, per fortuna), una duna e un bebè cammello, dovrà accettare che la realtà non corrisponde alle sue idealizzazioni e che il mondo non è in bianco e nero. I colori del deserto susciteranno in lei un sentimento profondo, che con imbarazzo scambia per attrazione amorosa, ma altro non è che l'amore per il deserto.

Detta così, questo film è una figata. In effetti, dato che il deserto è un'esperienza che mi manca, ma che è in programma, mi sono imbevuta avidamente delle splendide riprese di un pezzo del Marocco che ancora non è stato raggiunto dalla globalizzazione massiccia. Il deserto è magico, la conversione al capitalismo più abbietto meno. In ogni caso, questo film non è una figata: l'attrice protagonista è scarsissima, l'azione è forzata e il film non sembra avere né capo né coda. Molte scene sembrano buttate lì per riempire un'ora e tre quarti, quando ci sarebbe stato così tanto da dire. Ancora una volta, mi rammarico dell'immaturità della cinematografia marocchina. Partendo da un presupposto così intrigante, dotato di così tante sfaccettature, si sarebbero potute fare tante, tante cose. Forse la superficialità del film non è tutta da imputare all'immaturità del regista, perché il film presenta una prospettiva precisa, la prospettiva delle autorità marocchine. Non dico che sia un film di regime, ma va tenuto in conto.