Salam aleikoum amici, la mia ultima
escursione alla Cinémathèque alla ricerca di wifi mi è fruttata
la preziosa informazione che il bar della suddetta è ormai punto di
ritrovo per tutti gli stranieri che vivono a Tangeri, oltre che la
visione di un film per 20 dirham.
Frontieras affronta la complicata
questione del separatismo saharawi da un punto di vista bizzarro: una
simpatizzante indipendentista spagnola parte per il sud del Marocco
per girare un documentario sul Sahara occidentale. Questo viaggio le
frutterà un rivolgimento delle sue preconcezioni e un nuovo amore.
L'inizio è ambientato principalmente a
Laayoune, dove Maité è assistita da un marocchino, che la mette di
fronte all'altro lato della medaglia: le interviste che la porta a
registrare mostrano che buona parte della popolazione saharawi,
soprattutto gli intellettuali e la fascia istruita, è ben felice
dell'appartenenza al Marocco e ne apprezza l'operato politico e la
recente svolta in termini di diritti umani. In effetti la questione è
più complessa di come la faccia questo reportage di Vice:
il territorio del Sahara occidentale (e anche la Mauritania) è stato
per molti secoli sotto la tutela dei sovrani del Marocco, prima che
gli interessi coloniali francesi e spagnoli sconvolgessero la
geopolitica di tutto il continente. È appunto il colonialismo, con
il supporto dell'Algeria, ad avere creato il movimento
indipendentista. Ed è senza dubbio dal senso di colpa
post-colonialista che una buona parte degli europei di sinistra
deriva la convinzione di dover salvare l'Africa da se stessa (e dalle
brutte abitudini apprese dall'uomo bianco). Così Maité, che è
scandalizzata da come vivano bene gli amici del suo amico,
addirittura ascoltano musica lounge alle feste.
Maité è pronta a gettare la spugna,
ma una promessa fatta a un amico la porta a spingersi più a Sud,
dove incontra un affascinante ex-combattente del Polisario, attuale
presidente di un'ONG che assiste le famiglie povere saharawi. Maité
è decisa a seguire quest'ultimo in un viaggio nel deserto. Tra
un'oasi, una poesia decantata in arabo, un the nel deserto (non
quello di Bowles, per fortuna), una duna e un bebè cammello, dovrà
accettare che la realtà non corrisponde alle sue idealizzazioni e
che il mondo non è in bianco e nero. I colori del deserto
susciteranno in lei un sentimento profondo, che con imbarazzo scambia
per attrazione amorosa, ma altro non è che l'amore per il deserto.
Detta così, questo film è una figata.
In effetti, dato che il deserto è un'esperienza che mi manca, ma che
è in programma, mi sono imbevuta avidamente delle splendide riprese di un pezzo del Marocco che ancora non è stato raggiunto dalla
globalizzazione massiccia. Il deserto è magico, la conversione al
capitalismo più abbietto meno. In ogni caso, questo film non è una
figata: l'attrice protagonista è scarsissima, l'azione è forzata e
il film non sembra avere né capo né coda. Molte scene sembrano
buttate lì per riempire un'ora e tre quarti, quando ci sarebbe stato
così tanto da dire. Ancora una volta, mi rammarico dell'immaturità
della cinematografia marocchina. Partendo da un presupposto così
intrigante, dotato di così tante sfaccettature, si sarebbero potute
fare tante, tante cose. Forse la superficialità del film non è tutta da imputare all'immaturità del regista, perché il film presenta una prospettiva precisa, la prospettiva delle autorità marocchine. Non dico che sia un film di regime, ma va tenuto in conto.